Intervista a Ezio Costanzo

Sono un narratore di storia

di Salvo Fallica

La vita, la custodia della memoria, la ricostruzione storica, una triade raccontata attraverso il giornalismo ed il fotoreportage. Sono alcuni dei temi fondanti del nostro dialogo con Ezio Costanzo, giornalista, storico, documentarista, studioso di fotografia e curatore di importanti mostre. Costanzo è un siciliano che ama la sua terra, un etneo di Paternò, che ha una profonda passione per la storia. Un personaggio eclettico che ha studiato e studia in prestigiosi archivi storici del mondo anglosassone. Si è specializzato in particolar modo sulla seconda guerra mondiale. Tema che ha affrontato in molti suoi libri. Questa intervista prende spunto dal suo ultimo testo, “L’istante e la storia. Reportage e documentazione fotografica. Dalle origini alla Magnum”, edito da Le Nove Muse Editrice, ma diventa un dialogo sui suoi numerosi libri ed il suo attivismo culturale.

In lei la passione per il giornalismo si interseca con quella per la fotografia. Come sono nate queste passioni?
«Da piccolo mi piaceva rovistare i cassetti della scrivania di mio padre. Custodivano tante vecchie fotografie di famiglia, immagini senza tempo che mettevo in fila seguendo l’ordine di grandezza della stampa. Mi chiedevo chi fossero le persone immortalate e facevo tante domande. Poi in un quaderno appuntavo nomi e gradi di parentela. E sotto i nomi delle storie. Inventate. Ho ancora quel quaderno. Avevo circa dieci anni e chissà, forse tutto è nato da lì. Poi, da adolescente, comprai la mia prima macchinetta fotografica, una “Diana” di plastica, con rullino dodici pose 6×6, e iniziai a scattare fotografie. Coglievo immagini dei miei famigliari ma anche i volti degli estranei che in strada mi passavano accanto. Mi piaceva cogliere gli sguardi della gente…».

Come definirebbe la dimensione del foto-giornalismo? Cosa è nella sua visione la fotografia?
«Tutto è racchiuso nelle parole del grande fotografo Henry Cartier Bresson: fare una fotografia vuol dire allineare la testa, l’occhio e il cuore. Bresson è stato un maestro per tutti i fotografi che hanno scelto il mestiere di raccontare gli eventi con la luce. Con la testa si sceglie cosa fotografare, con l’occhio si compongono le forme, con il cuore si preme sul pulsante di scatto per imprimere un’anima all’immagine. Oggi, purtroppo, molti fotoreporter danno valore solo alla composizione dell’immagine, elaborando spesso i toni cromatici con le diavolerie del fotoritocco, costruendo belle foto senza vita. I grandi fotoreporter del Novecento non avevano l’Iphone. E forse per questo sono diventati grandi, perché aspettavano che il cielo assumesse le tonalità della natura per ottenere foto straordinarie. Oggi non si aspetta; si scatta e poi si elabora tutto a casa. No. Questo non è fotoreportage».

Ripercorriamo le tappe della sua crescita professionale. Dopo una lunga attività di giornalista in senso classico si è dedicato allo studio della storia. Un amore che è diventato un lavoro. Come è avvenuto questo passaggio?
«La mia formazione universitaria ha una base storica. Ricordo che nel mio piano di studi, a Scienze Politiche, inserii, come materia supplementare, storia medievale. Fui l’unico. Dovetti sostenere l’esame alla facoltà di Lettere, con l’allora prof. Leone, che restò sorpreso della mia scelta ma premiò con un brillante voto l’esame. Durante la mia attività giornalistica avevo la mania di conservare tutto, appunti, documenti, fotografie. L’archivio era molto importante per me ed era basilare per scrivere senza dire sciocchezze. Per scrivere saggi di storia è ancora più importante. La frequentazione degli archivi ha completato la mia formazione, così come l’analisi delle fonti seguendo una precisa metodologia scientifica. Comunque mi ritengo un narratore di storia piuttosto che uno storico».

Può dirsi che in Italia, da una parte del mondo accademico, vi è una certa diffidenza verso i giornalisti che si occupano di storia. Eppure nel mondo anglosassone vi è invece una valorizzazione di queste figure, anzi è stata coniata una definizione ad hoc per questo impegno intellettuale. Qual è il suo giudizio in merito?
«Il grande storico Denis Mach Smith ha scritto che gli storici di professione redigono i loro saggi per parlarsi tra di loro. Beh, direi che sono in molti a farlo, specie in Italia. Il loro linguaggio è incomprensibile e spesso non vanno oltre all’analisi sommaria dei documenti che consultano. Non hanno la capacità deduttiva, fondamentale per comprendere i processi storici. E poi è anche un problema di tempi; molti cattedratici non pubblicano più nulla da decenni. Insomma, non si impegnano più di tanto da quando hanno conquistato il posto fisso. In molte altre parti del mondo ciò sarebbe impensabile. Nelle università americane, ad esempio, si diventa docente se sei bravo e pubblichi ricerche e libri. In Italia no. Basta vincere un concorso, più o meno creato ad hoc, e nessuno ti toglie più la sedia di docente. Meno male che esistono molti bravi giornalisti, come Giampaolo Pansa, Paolo Mieli e altri, che hanno saputo affrontare con correttezza scientifica temi storici altrimenti destinati all’oblio, utilizzando un linguaggio giornalistico accessibile a tutti e vendendo, per questa ragione, centinaia di migliaia di libri. Hanno saputo divulgare la storia senza essere pallosi, senza tralasciare comunque la ricerca dei documenti».

Prima di analizzare in maniera cronologica i suoi tanti libri è giusto partire dal suo ultimo testo, “L’istante e la storia. Reportage e documentazione fotografica. Dalle origini alla Magnum”, edito da Le Nove Muse Editrice. Un lavoro ampio e rigoroso sul piano delle fonti sulla storia della fotografia, che sta riscuotendo notevoli riscontri da parte della critica. Può illustrarlo sinteticamente ai lettori?
«E’ un saggio nel quale cerco di mettere ordine nell’immenso mondo del fotoreportage e dei suoi protagonisti. Grandi fotografi ma anche figure minori che però hanno documentato gli eventi contemporanei con talento e grande capacità espressiva. Il libro è rivolto al grande pubblico, a chi vuole approfondire la materia partendo da un approccio basilare seguendo le vicende temporali che hanno contraddistinto il fotoreportage: dalle guerre alla fotografia sociale, dalla foto di viaggio di fine Ottocento alla nascita del fotogiornalismo moderno con l’agenzia Magnum nel 1947. E poi i conflitti sociali, il mercato dei media, le storie personali dei protagonisti, l’evoluzione tecnica delle fotocamere, le fonti d’archivio che completano il lavoro, corredato naturalmente da tante immagini».

Nel libro vi sono storie di fuoriclasse della fotografia che si sono affermati od hanno alimentato il loro mito in Sicilia. Può raccontarne alcuni?
«La Sicilia è stata da sempre terra prescelta per reportage fotografici. Gli anni del Grand Tour hanno visto l’isola immortalata dagli Alinari e da tanti altri fotografi dell’Ottocento, ma anche durante la seconda guerra mondiale la Sicilia ha registrato la presenza di grandi nomi del fotogiornalismo mondiale, a cominciare da Robert Capa, che per il settimanale “Life” ha fotografato la battaglia di Troina, per continuare con il giovanissimo Phil Stern, che diventerà il fotografo delle stars di Hollywood, anch’egli in prima linea nell’isola a riprendere l’avanzata delle truppe americane da Gela a Palermo».

Ma vi sono anche altri casi che mostrano l’importanza della Sicilia nella storia della fotografia…
«Certamente. E non solo durante la Seconda guerra mondiale ma anche in tempi recenti. Nel dopoguerra l’isola è stata, per varie ragioni, al centro dell’attenzione dei media e quindi meta di reportage di grandi nomi della fotografia. Così come è stata culla di fotografi che hanno saputo documentare ogni istante di vita di questo luogo, nel bene e nel male».

Facciamo un salto indietro nel passato. Un suo libro di successo che l’ha imposta nel dibattito pubblico nazionale è stato “La guerra in Sicilia. 1943, storia fotografica” (con un saggio introduttivo di Lucio Villari), pubblicato da Le Nove Muse Editrice. Quali ritiene siano stati i motivi dell’affermazione di questo testo?
«Il libro è principalmente un volume fotografico, di grande formato, che racchiude, tra l’altro, 1200 fotografie, molte inedite, della guerra nell’Isola. Il successo del libro, probabilmente, è dovuto alle immagini, frutto di tanti anni di ricerca negli archivi di tutto il mondo e anche di privati».

Sempre sullo stesso tema ha pubblicato per Le Nove Muse Editrice “Sicilia 1943 – Breve storia dello sbarco alleato” (con introduzione di Carlo D’Este). Quali sono le caratteristiche peculiari di questo altro libro, anch’esso molto citato nel dibattito culturale pubblico?
«Un saggio in cui un evento storico della seconda guerra mondiale, lo sbarco anglo-americano in Sicilia del luglio del 1943, primo passo per la liberazione dell’Europa dal nazi-fascismo, viene raccontato con un linguaggio semplice ed uno stile narrativo comprensibile a tutti. In questi ultimi anni c’è una grande attenzione da parte dei lettori verso gli eventi storici. E gli editori lo hanno capito. A noi autori ci hanno chiesto di essere comprensibili quando scriviamo. E noi cerchiamo di esserlo. Il successo delle vendite ci dice che è la strada giusta».

Nel libro “Mafia & Alleati – Servizi segreti americani e sbarco in Sicilia. Da Lucky Luciano ai sindaci uomini d’onore” edito da Le Nove Muse Editrice (vincitore del premio Rocco Chinnici nel 2007 nella sezione saggi storici, anno in cui venne premiato anche Saviano per la saggistica per il libro Gomorra) ha affrontato un tema molto delicato. Può sintetizzare i nodi cruciali della sua ricerca?
«Mafia e Alleati è stato, e continua ad esserlo, un tema che fa discutere gli storici di tutto il mondo. Nel mio saggio ho proposto una serie di documenti che mettono in evidenza il rapporto tra servizi segreti americani ed esponenti mafiosi prima, durante e dopo lo sbarco in Sicilia del 1943. Un rapporto che, certamente, non fu determinante per la riuscita della più grande operazione anfibia di tutta la Seconda guerra mondiale, ma che ha lasciato strascichi di notevole rilievo. Come ad esempio la legittimazione del potere mafioso nell’isola durante e dopo i giorni di occupazione, ben documentato dai rapporti degli agenti dell’OSS, l’Office Strategic Services, che operavano a quel tempo nell’Isola”.

Questo libro è tornato a far discutere di recente perché è stato fra i testi ispiratori del film di Pif “In guerra per amore”. Autorevoli storici ed intellettuali criticano la ricostruzione per cui furono gli Alleati a ridare spazio alla mafia in Sicilia, anche perché in realtà come dimostrano documenti storici riferiti alle indagini sulla mafia negli anni Trenta l’organizzazione criminale era ben radicata nei territori ed organizzata. Dunque non solo sarebbe falso il mito del fascismo che aveva sconfitto la mafia (aveva solo colpito “il ceto medio mafioso”), ma sarebbe anche stato enfatizzato il concetto dell’alleanza tra “mafia ed alleati”. Come risponde alle obiezioni?

«Il rapporto tra esponenti mafiosi isolani e servizi segreti americani ci fu. Eccome se ci fu. Ne parlano esplicitamente anche alcuni agenti del Naval Intelligence durante l’inchiesta parlamentare Herlands del 1954 e viene evidenziata dal capitano statunitense Scotten nel suo, ormai famoso, rapporto scritto alla fine del 1943. Scotten è chiaro nel suo scritto evidenziando la necessità di porre rimedio al problema mafia che era riemerso dopo lo sbarco alleato».

Altro libro molto significativo è “I bambini e la guerra. Le immagini del secondo conflitto mondiale e delle guerre di oggi” (Rai Eri). Operazione culturale alla quale sono legate anche delle mostre realizzate a Catania ed a Troina. Ha voluto mostrare l’altro volto della guerra?
«Ho voluto mostrare, senza alcun velo protettivo e quindi con la schiettezza dell’immagine fotografica, il vero volto della guerra e le conseguenze subite dai bambini, vittime senza colpe delle scelte degli adulti. Molte immagini erano quasi nascoste negli archivi inglesi ed americani. Le ho riportate alla luce e mostrate al mondo”.

Ha anche realizzato due documentari storici: “Sicilia 1943. Lo sbarco alleato” e “Phil Stern- Sicilia 1943, la guerra e l’anima”. Del primo tema abbiamo ampiamente parlato, il secondo merita un approfondimento. A Stern ha dedicato molti studi, mostre, dibattiti, film ed eventi. Come è nato il suo dialogo con il grande fotografo?
«Il rapporto con Stern ha significato molto per la mia vita professionale ma anche di uomo. Nel 2013 ho avuto il privilegio di conoscerlo, un vero mito della fotografia, ho potuto parlare con lui e stargli accanto per due settimane, un anno prima della sua morte. Sono riuscito a riportarlo in Sicilia dopo 70 anni e ad intervistarlo per il mio documentario.Parlavo di storia con chi era stato dentro quella storia che raccontava. E nel mentre fluttuavo dentro la fotografia. Storia e fotografia, ovvero il mio universo, si sono materializzati in quest’uomo di 93 anni che si portava dentro i segni della guerra ma anche i sorrisi della sua incredibile carriera hollywoodiana. Un’esperienza irripetibile».

Cosa ha rappresentato Stern nel Novecento e nella storia della fotografia?
«Da giovanissimo, a 21 anni, parte per la guerra e viene mandato in Africa. Diventa fotografo della rivista dell’esercito americano Stars & Stripes e su arruola nei Rangers. Le immagini scattate dapprima nel Nord-Africa e poi in Sicilia racchiudono già l’impronta del grande fotografo. Diventerà il prediletto di Marilyn Monroe e di James Dean, oltre che amico di Frank Sinatra e fotografo ufficiale del presidente John Kennedy».

Puoi anticipare ai nostri lettori i progetti ai quali sta lavorando?
«Tanti progetti. Tra cui una mostra internazionale di fotografia sull’emigrazione, supportata dalla Fondazione Oelle di Ornella Laneri, grande sostenitrice del progetto Stern, e da Carmelo Nicosia, direttore della Fondazione. Con entrambi divido l’amore per l’impossibile”.

Pubblicato il 12 gennaio 2018

sicilymag.it

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